Facendo nostre le parole dell’aforisma di Ippocrate, padre della medicina: “la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile”, non è difficile cogliere, nella biografia e nell’opera di Pasolini, un’atroce disperazione unita a un grande amore per ogni forma di vita.
A cento anni dalla sua nascita ci rimane, invero, l’angoscia che emana dalle sue opere e quel suo potente disincanto creativo con cui si ostina ad analizzare i mali, i sogni, le contraddizioni della società e della cultura della seconda metà del Novecento. Proprio questa inquietudine mista al suo eclettismo complicano spesso la lettura delle sue opere e l’indagine critica, tanto più perché Pasolini in rari casi ha elaborato un pensiero sistematico: egli ha gestito con passionalità e totale dedizione di sé, il suo ruolo d’artista e d’intellettuale sempre impegnato in prima linea a pronunciarsi su tutto da corsaro e da eretico.
Tante sono le biografie in commercio, gli scritti critici sull’opera di Pasolini, tanti ancora gli scandali e altrettanti sono i giudizi, o esaltanti o malevoli o eccessivamente dissacranti, e, in questo centenario, tante sono le iniziative che vogliono celebrare la figura dell’intellettuale. Tutto ciò è sicuramente imputabile al fatto che pochi autori si sono espressi in così svariate forme e linguaggi: dalla poesia al romanzo, alla sceneggiatura, al cinema, al teatro, all’intensa attività di giornalista e critico letterario, ma parlare di Pasolini in contatto diretto con il mondo non è una metafora.
In ogni momento della biografia e dell’opera pasoliniana, la sua partecipazione al presente è totale, assoluta, disperata e sente costantemente il bisogno di difendere i diritti della sua passione, cerca con tutti i mezzi possibili di intervenire, gridando in modo provocatorio il suo rifiuto dell’orrore in cui ha visto precipitare il mondo luminoso della sua giovinezza: la sua tragica morte ne fa la vittima di quell’orrore, di quell’atto sacrificale, quasi reclamato dalla sua disperata e ossessiva provocazione contro il presente e anche martire di quell’equilibrio perduto per sempre dalla società italiana e mondiale.
Sebbene non sfugga agli studiosi più attenti che, l’opera di Pasolini, sia infatti incomprensibile al di fuori di una realtà localizzata, di un paesaggio che cambia e che vive. È un paesaggio che ha molti volti e molti nomi: Casarsa e il Friuli, Bologna, Roma e le sue borgate, l’India, la Palestina, l’Italia del Sud e la Basilicata con la sua Matera-Gerusalemme nel capolavoro cinematografico de Il vangelo secondo Matteo.
In tutti questi luoghi, Pasolini cerca la specificità, le realtà singolari, sotto forma di lingua, di cultura, di storia, di rapporto sensuale con la natura, i modi in cui la presenza umana e l’ambiente fisico si condensano in un paesaggio composito, determinando interazioni sociali, tradizioni, linguaggi: la differenza assume forme e spessore e genera una realtà plurale. È plurale, innanzitutto perché è la somma di tutti gli aspetti che si muovono in esso; ma ancor di più perché non esiste un unico modello di paesaggio, mentre invece esistono in ogni paesaggio delle costanti morali che, attraverso i casi singoli, ritornano: lo sguardo di Pasolini al paesaggio è quello di un’etica dei luoghi, alla ricerca dei valori molteplici che vi si sono depositati nei secoli, la possibile continuità tra la vita dell’essere umano e quella della natura, la capacità umana di definirsi attraverso il paesaggio, e di trasformare la propria storia culturale rapportandosi conoscitivamente alle forme che, col tempo, si cristallizzano nei luoghi; ma soprattutto la bellezza, che è qui un valore etico, e corrisponde alla capacità del paesaggio di vivere, come direbbe Kerényi, in una doppia contemporaneità di presente e passato, di natura e cultura.
Pasolini vive la contraddizione in modo viscerale, come la manifestazione di una “disperata vitalità”, di una intima forza personale alla quale sente di dover dare un valore più esistenziale, di trasformarla in responsabilità sociale. Così alla ‘passione’ personale lega il senso del dovere e dell’impegno pubblico: le sue scelte individuali si incontrano con l’ ‘ideologia’, con il bisogno di cercare una società giusta, giudicando anche il mondo contemporaneo e giunge a sentire, sulla sua pelle, le più profonde trasformazioni del tessuto sociale italiano, nel passaggio dalla civiltà contadina a quella consumistica del benessere. Tuttavia Pasolini sa che non è possibile ritornare al passato: ogni volta si accanisce a distinguere il bene dal male, individuare ipotesi e possibilità positive; denuncia soprattutto la classe politica, il Potere ed il Palazzo, abitato da corrotti ed incapaci che hanno lasciato a marcire il Paese e che lo hanno venduto e distrutto. Noto quanto disse a Furio Colombo nell’intervista che gli concesse, qualche ora prima di essere ucciso all’idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975: “Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace degli altri, ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi”. È proprio così, perché oggi più di ieri, “siamo tutti in pericolo” ed è per questo che, per difenderci dall’inferno della nostra contemporaneità, che la lezione autentica, dell’antesignano poeta che oggi compie i suoi cento anni, è ancora valida.
di Maura Locantore
(Segretaria del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini)