Abbiamo letto con amarezza e indignazione le dichiarazioni del Presidente della Regione Basilicata, Vito
Bardi, e dell’Assessore Cosimo Latronico sulla riforma dell’accesso a Medicina. Parlano di “svolta
epocale” e di “via aperta al merito”. In realtà, ci troviamo davanti a un’operazione puramente cosmetica,
un maquillage di facciata che rischia di produrre danni gravi per un’intera generazione, oltre che per i
pazienti.
Il numero chiuso resta, viene solo spostato di qualche mese. Il numero di prove viene triplicato,
3 al posto di una soltanto. Non sarà un vero semestre, ma appena 3 mesi di lezioni, con ogni probabilità
in didattica a distanza e, stando al decreto, in deroga ai requisiti minimi di docenza. Condizioni ancora
più floride per le tante scuole private di preparazione ai test. Chi non supera il filtro dopo tre tentativi
non potrà più diventare medico. Mai più. Si istituzionalizza l’idea che sbagliare significhi essere esclusi
per sempre. Prima si poteva provare il test ogni anno, tutte le volte che si voleva. Il test andava reso
certamente più meritocratico, eppure è stato scelto il metodo peggiore. E, come se non bastasse, le
università private sono completamente esonerate da questo sistema. Continueranno ad accettare
studenti con test interni e rette da 20 mila euro l’anno. Un modello a due velocità: chi può pagare avrà
un accesso “protetto”, chi no dovrà partecipare agli Hunger Games universitari. Altro che vittoria del
merito.
La retorica della mancanza di medici è più che fuorviante: non mancano laureati in medicina, il vero
problema è la carenza di specialisti in determinate aree. Carenza a cui hanno sicuramente contribuito
dieci anni di mancata programmazione (2011–2021), con borse di specializzazione insufficienti rispetto
ai laureati. Solo nel 2021 il ministro Speranza, grazie anche al contesto pandemico, ha aumentato il
numero delle borse in numero sufficiente ad assorbire il numero dei laureati. Ma gli effetti – dato che una
specializzazione dura 4-5 anni – si vedranno solo da quest’anno in poi. Giova ricordare che negli
ospedali possono essere assunti solo gli specialisti e non anche i laureati in Medicina, i quali,
senza specializzazione, possono al massimo svolgere attività di guardia medica. E per formare uno
specialista servono ulteriori 4/5 anni oltre i 6 anni di laurea. In pratica, chi entra quest’anno a Medicina
potrà essere assunto nei reparti a partire dal 2035/2036. Una finestra di 10/11 anni minimo, che
rende vano l’aumento degli accessi attuali per colmare lacune temporanee (quest’anno sono
previsti settemila posti in più rispetto all’anno scorso, un numero enorme considerando che dal 2014 al
2024 l’aumento era stato di 10 mila in 10 anni). A partire dal 2030, stando ai dati delle associazioni di
settore, avremo un surplus di specialisti e, poiché formarne uno allo Stato costa circa 150.000 euro,
regalarli al privato o all’estero finirebbe per creare un danno erariale enorme, danno che Anaao Assomed
stima in 12 miliardi di euro potenziali.
La priorità dovrebbe essere quella di fermare la fuga degli specialisti dal SSN a causa di condizioni
lavorative estenuanti e di stress per i turni massacranti e le continue denunce (il 97 % delle penali e il 70%
delle civili finisce con un’assoluzione). Per usare la metafora idraulica di Nino Cartabellotta,
Presidente della Fondazione Gimbe: se in un sistema idraulico si aggiunge acqua senza chiudere le perdite,
si avrà solo uno spreco d’acqua (e in Basilicata noi lo sappiamo benissimo). Ma soprattutto serve
investire adeguatamente per l’università in Basilicata e renderla attrattiva, a partire dai trasporti
intraregionali, che definire inefficienti è un eufemismo. E invece cosa fa la giunta Bardi? Si accoda
alla propaganda del governo nazionale (come già accaduto con l’autonomia differenziata). Dal governo
regionale ci aspettiamo molto più che un mero posizionamento politico, col risultato di celebrare
acriticamente una riforma sbilanciata, sostenuta da nessuna delle principali voci del settore: né ordini
professionali, né sindacati, né associazioni studentesche. Invitiamo la giunta regionale a leggere i
verbali delle commissioni parlamentari: non troveranno neanche un’audizione favorevole.
Come Giovani Democratici di Melfi, rivendichiamo una visione opposta: una sanità pubblica
accessibile e di qualità, una formazione universitaria che sia davvero meritocratica e non selettiva in base
al reddito, una programmazione basata sui fabbisogni reali, non sulle scadenze elettorali. Questa riforma
non è una svolta. Renderà più forte la competizione, aumenterà il disagio psicologico degli studenti e
abbasserà la qualità della formazione medica, con grave danno ai pazienti del futuro. Noi non ci stiamo.
E continueremo a dirlo con forza.
Giovani Democratici Melfi